A 100 giorni dall’insediamento di Trump, sembrano esplodere tutte le contraddizioni di una globalizzazione
senza regole e di un capitalismo violento e disumano. Si scontrano tecnocrazie, poteri finanziari, grandi
oligarchie e in questo scontro improntato alla creazione di rapporti di schiacciante predominio soccombe la
politica e soccombono le democrazie.
Si tratta di uno scenario di profonda crisi, dove tutto sembra tracimare e degenerare. Una crisi organica,
narrata attraverso pesanti manipolazioni dell’informazione e accompagnata da una veloce transizione verso
un’economia di guerra che riguarda la produzione industriale, la produzione di energia, l’approvvigionamento
di materie prime. Tutto funzionale, anzi indispensabile ad una torsione dell’economia in senso bellico.
In questo momento sono in corso nel mondo 56 conflitti armati. Più di 7000 persone tra civili e militari dello
Stato italiano sono impegnati in cosiddette missioni all’estero, ripetutamente riconfermate e rifinanziate
dall’Italia che è il secondo contributore dopo l’America per le missioni Nato e il primo per le missioni europee.
Questo approccio, che noi contestiamo, dice già molto sul tradizionale militarismo delle politiche italiane e
sulla mediocrità di una ricerca di rilevanza internazionale attraverso le forze armate.
È la terza guerra mondiale a pezzi di cui parlava Papa Francesco già nel 2014 e che da allora si è irrobustita
ed ampliata configurando uno scenario devastante che moltiplica le ragioni di ostilità.
Oggi è in corso in Palestina un genocidio negato, ignorato, occultato nonostante la sua innegabile, atroce e
quotidiana evidenza che segnerà questa epoca con il massimo di disonore. I responsabili vengono ricevuti in
Europa senza contestazioni nonostante le accuse di organizzazioni come le Nazioni Unite e la comunità
internazionale non fa alcun tentativo di porre fine al crimine in atto sulla striscia di Gaza.
In Ucraina è in corso una guerra devastante che colpisce soprattutto le popolazioni civili come avviene in
ogni conflitto contemporaneo dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Già dall’inizio del conflitto noi
Rossomori avevamo dichiarato di non partecipare alle tifoserie per l’una o l’altra parte ritenendo piuttosto
urgente dichiarare la nostra solidarietà alle popolazioni ucraine e russe che non vogliono la guerra ma ne
sono le prime vittime.
Noi, prima di qualunque considerazione sulle cause storico-politiche o economiche di un conflitto, ci
dichiariamo contro ogni guerra e ci appelliamo all’art 11 della Costituzione dello Stato italiano molte volte
aggirato con mediocri artifizi linguistici attraverso i quali le guerre diventano “missioni di pace”, “operazioni
umanitarie” o campagne di “esportazione della democrazia” che lasciano a terra centinaia di migliaia di morti
e aree profondamente destabilizzate e in mano ai signori della guerra come in Iraq e in Siria.
Noi richiamiamo il diritto umanitario che non riconosce né guerre giuste né, purtroppo, paci giuste, ma mette
in primo piano la sofferenza, il lutto la disperazione dei popoli. E per ciò, fin da subito, avevamo detto No
all’invio di armi in Ucraina considerando, esso stesso, un atto di guerra inutile, come i fatti hanno dimostrato,
a difendere il popolo ucraino e a predisporre la fine del conflitto.
Altri, che oggi tentano di intestarsi le battaglie per la pace, ci sono arrivati con ritardo, dopo aver votato
diversi invii di armi e dopo aver fatto voltafaccia su questioni fondamentali come l’opposizione agli F35
americani. (5stelle). E assieme a molti altri, con le loro alleanze elettorali e di governo, continuano a
consolidare il potere di gruppi palesemente fautori del riarmo e della militarizzazione (PD, Fratelli d’Italia,
Forza Italia, Azione, Italia Viva, Più Europa).
Ma oggi si pongono le basi per un conflitto senza precedenti e dalle conseguenze imprevedibili. Ciò che
avviene, precipitosamente, nelle ultime settimane, a partire dalla buffonesca promessa della “pace in 24 ore”
e a seguire con la guerra dei dazi quotidianamente ridefiniti in un’oscena esibizione di potere e comando,
oltrepassa ogni soglia di decenza.
Così come indecente appare la risposta europea al dichiarato disimpegno militare dell’America in Europa e
nella Nato, vale a dire la scellerata corsa al riarmo. Percentuali crescenti di Pil destinate agli armamenti,
spese militari a debito fuori dai patti di stabilità, 800 miliardi per approvvigionare gli arsenali dei singoli stati
(non per una difesa europea) sono scelte oligarchiche che cadono dall’alto, sulle teste di cittadini privi di reali
strumenti di opposizione.
Drammaticamente risulta evidente il vuoto del ruolo esercitato dall’Europa prima passivamente asservita al
“protettore “americano, oggi finanche docile esecutrice dei diktat trumpiani e in prima fila l’Italia, con quei
ridicoli e solitari viaggi della speranza alla corte dei nuovi monarchi d’oltre Oceano. Viaggi apostrofati dallo
stesso Trump con una volgarità senza senso e senza eguali.
Ora più che mai sarebbe stata necessaria un’Europa dei popoli che riconoscesse il diritto
all’autodeterminazione come principio fondante e valido per tutti: dal Donbass, dalla Catalogna, alla
Sardegna, alla Scozia, nel segno di una convivenza pacifica e di una rinuncia alla prevaricazione e alla
guerra economica.
Noi pensiamo che la corsa agli armamenti, che non a caso ha preceduto le due guerre mondiali del
Novecento, ci porti dentro logiche dall’evoluzione imprevedibile e drammatica. Per ciò crediamo necessaria
una mobilitazione generalizzata finalizzata a contrastare i progetti di riarmo e le contigue costruzioni
narrative, di schietta manipolazione dell’opinione pubblica, che ne fanno da cornice a fondamento. Prima fra
tutte l’artificiosa costruzione di un nemico che paradossalmente si materializza all’improvviso, prima ancora
di assumere connotazioni precise di identità: la Russia, il Nord Africa con i suoi migranti, o chi sa quale altro
indefinito soggetto minaccioso contro il quale armarsi, o meglio difendersi come suggerisce Giorgia Meloni.
Ma affermare di essere contro il riarmo e la militarizzazione non è un esercizio semplice. Richiede coerenza.
Richiede affermare che si devono fermare le armi comprese quelle sulle quali l’industria bellica italiana
fattura miliardi, comprese quelle con le quali la NATO si esercita nel nostro mare e nella nostra terra,
comprese quelle che si producono in Sardegna alla RWM, comprese quelle che Trump intende venderci con
il ricatto dei dazi. Richiede dire no alle servitù militari sarde e cioè pretendere la dismissione delle basi e non
la loro improbabile “trasformazione green” per renderle sostenibili, come ha più volte ribadito la presidente
della Regione Sardegna Alessandra Todde. Esige che la Sardegna non sia più né la tradizionale colonia
militare, né la nuova colonia energetica a sostegno di una struttura economica che non controlla, né il
serbatoio di terre rare la cui estrazione ha costi ambientali enormi e perciò, non a caso, fino ad ora è stata
relegata alle aree di sacrificio del pianeta.
Noi pensiamo che la Sardegna non sia e non debba mai essere in guerra con nessuno e che la giusta
necessità di difendere la libertà e la democrazia per i sardi e le sarde non debba mai, in alcun modo, tradursi
in un grido di guerra contro altri popoli e altre culture, ma debba essere un esercizio di trasformazione della
nostra realtà.
Ma riteniamo anche che una richiesta di pace sia inutile se non accompagnata dalla richiesta di un nuovo
modo di stare su questo pianeta.
Viviamo in un mondo interconnesso dove le grandi oligarchie e grandi gruppi monopolistici che controllano
beni essenziali (energia, cibo, sicurezza), tirano le fila indifferenti alle povertà, alle disuguaglianze e alle
sofferenze di territori e popolazioni dipendenti e subalterne. Saltano equilibri geopolitici che sembravano
consolidati e questo repentino tracimare su scala globale manda in frantumi anche le fondamenta di una
dimensione collettiva organizzata attorno a principi cardine quali la libertà, la giustizia sociale, i diritti, le
democrazie, sostanziali e non formali.
La sovranità popolare, che è per noi un bene primario, oggi è sotto pesante attacco. Da qui la nostra
resistenza e la nostra battaglia per una nuova legge elettorale sarda.
Se la “difesa dei sacri valori dell’Europa”, per le oligarchie occidentali passa attraverso il riarmo, per noi sardi
passa anzitutto attraverso la battaglia per conquistare una legge elettorale realmente democratica, perché
quella in vigore non lo è in alcun modo.
Noi pensiamo che lo sconforto e la rabbia per ciò che accade oggi, in questo mondo “grande e terribile”, non
possa se non tradursi in un nuovo impegno per costruire popoli e territori capaci di autodeterminazione.
Lavoriamo a ridurre al minimo le dipendenze politiche, economiche, energetiche, alimentari di ogni popolo e
di ogni territorio, costruiamo sicurezza attraverso la giustizia e la lotta alle diseguaglianze, l’affermazione dei
diritti dei popoli e delle persone.
Aprile 2025